“Forse…”: sguardi e immedesimazione per una possibile public and present hi-story

I fotografi di guerra oggi… definizione inquietante. Forse sarebbe meglio fotografi giornalisti, la cui professione è così cambiata nell’ultimo ventennio, magari public photographic historian journalist (consiglio vivamente la lettura della voce Fotogiornalismo di guerra di Manuela Fulgenzi, su Treccani.it)? Alcuni sono fotografi anche d’arte, bravissimi: hanno la sensibilità degli artisti nel saper cogliere e restituire orrore e compassione insieme.

Mi chiedo: quando fotografano, per ritrarre alcuni momenti, persone ed eventi in certi contesti, spesso non concordano tacitamente l’inquadratura, il momento, l’evento fotografico, e storico al tempo stesso, con i soggetti fotografati? Ci sono a volte sguardi in macchina nelle loro immagini, e gli sguardi, del fotografo e di chi è fotografato, non solo si incontrano, ma si condizionano, anche inconsapevolmente, quando nell’attimo di uno scatto lo sguardo dei fotografati è o sembra essere altrove. Si presuppone che il fotografo che si trovi lì in quel momento, pur nel pericolo e nella concitazione del lavoro, realizzi più scatti, si mostri, palesi con le sue intenzioni, tra le rovine o altro, alle persone, attori drammatici e tragici, che lo riconoscono, accettano, così come accettano l’atto fotografico, ovvero di essere ripresi e di farsi soggetti attivi e consapevoli di una testimonianza. Spesso si tratta solo di una manciata di secondi in cui si consuma un processo inconscio, un legame sentimentale e solidale, verrebbe da pensare, collettivo al tempo stesso, pubblico e condiviso che porta a una narrazione… legame che non finisce, che non riguarda solo loro (fotografo e fotografati).

Già, i fotografi poi postano i loro lavori, quasi in tempo reale, sui loro profili social e li inviano ai giornali, che a loro volta postano le loro immagini sui propri profili social (oltre sui siti web istituzionali): gli sguardi dunque si moltiplicano, si centuplicano, si continuano a condizionare, anche se con modalità diverse. Diventa una grande operazione collettiva multiforme e sempre più diffusa che non crea solo immaginari. Quanti sono i mediatori/produttori di sguardi? All’inizio il fotografo che costruisce il racconto/testimonianza insieme alle persone protagoniste dell’evento drammatico, poi i giornali, poi ancora il fotografo che diffonde e media con un pubblico altro, solo suo, che coinvolge nelle proprie testimonianze, nelle proprie emozioni, nel proprio lavoro, interagendo con i commenti. Poi? Accade che persone, come la sottoscritta, si affezionino al fotografo e al suo lavoro, ai suoi racconti, alle persone raccontate e riconoscano, prima ancora dell’orrore, la compassione delle narrazioni, che rende prezioso, preziosissimo, unico il lavoro del fotografo, incontrando la sua umanità tra altre umanità.

Tra i fotografi che seguo soprattutto su Instagram segnalo: Ed KashiMichael Christopher Brown, Marcus Bleasdale, Sebastian Rich … Spesso sono persone che si occupano anche di altro, non solo di guerra: dei rifugiati e della loro vita nei campi, della fame e della miseria in Africa, di diritti umani, e non solo di sofferenza, ma di bellezza (ritraggono paesaggi meravigliosi, alcuni hanno passioni per i giochi dei bambini, per le madri, per gli animali, per la danza…).

Ma torno a un “teatro di guerra” e al suo racconto (mi ha sempre impressionato questa definizione). Cosa so in più della battaglia di Mosul nel 2017, forse appena terminata, oltre quanto riportano i giornali e i commentatori e qualche notizia in televisione o sul web? Le fotografie di Felipe Dana, i suoi sguardi mi avvicinano alle persone coinvolte, soldati, nemici, popolazioni inermi, bambini, donne, uomini, anziani che tentano di sopravvivere nell’orrore. Mi immedesimo come non potrei con nessun altro media/filtro. Sulla fotografia/immagine fissa, nei brevi video su Instagram (spesso realizzati con un suo drone) mi fermo e soffermo con occhi spalancati, rivolgo pensieri e incitazioni a quelle persone, allo stesso fotografo, perché ce la facciano, perché soffrano meno, perché non vengano travolti, perché si apra uno spazio di umanità, appena mostrato dallo sguardo del fotografo, a cui corrispondono quelli aperti dalle persone fotografate, spazi, tregue d’umanità sempre maggiori, pieni di compassione, speranza, nonostante tutto, e partecipazione, perfino per il nemico sospetto di simpatizzare per l’Isis, inginocchiato, legato, con gli occhi bendati (non posto questa immagine … è terribile e toccante… la trovate facilmente sul web).

Cosa mi resta? La meraviglia di avere la fortuna di vivere non in un “teatro” di guerra, e al tempo stesso il senso di colpa, ma anche la scoperta di sentirmi partecipe e attenta, con la voglia di pregare perché l’orrore finisca. Mi resta l’immedesimazione: immaginarmi lì, nei loro panni, mentre tento di fuggire e aiuto qualcuno a fuggire, facendogli coraggio, facendo attenzione, consolando e trovando consolazione negli sguardi altrui, anche lontani (saprei da che parte stare).

Cosa c’entra con la storia e con la public history tutto questo? C’entra a mio avviso: mi documento sul fotografo, anche sul suo privato, spesso rappresentato e mescolato al suo lavoro su Instagram, entro in contatto con lui e insieme a me tanti altri follower i cui commenti lui legge, a cui spesso risponde, mi documento sugli eventi che rappresenta, ascolto quello che riportano altri media, anche sul contesto storico-geografico, sulla storia dell’Iraq, dello stato islamico, della Siria, condivido quindi le immagini e le riflessioni con altri mediatori, commento anche io le foto di Felipe, che magari interagisce semplicemente con un “mi piace” al commento, mentre è lì. Medio anche io e narro, coinvolgendo altre persone sui social, ma … mi manca il contatto con le persone che subiscono gli eventi o forse no. Forse, essere riuscita a non volgere lo sguardo altrove, scegliendo di seguirli attraverso gli sguardi di Felipe che sono anche i loro, mi consente di entrare in contatto con loro e di sperimentare un modo diverso di sapere e conoscere gli eventi e di parteciparli.

Mi permetterebbe inoltre, per esempio, se insegnassi in una scuola media italiana, dopo aver ricostruito, in modo tradizionale, la storia dell’Iraq, e non solo, degli ultimi anni, di coinvolgere Felipe in un lavoro con gli alunni. Potrebbero infatti seguirlo, “accompagnati” e, sempre per esempio, commentare la foto che segue, e ragionare anche sul lavoro del giornalista, del fotoreporter, delle agenzie come AP. Potrebbero essere stimolati e invitati anche ad immaginare come, a battaglia conclusa, immedesimandosi nel vissuto di ragazzi, di famiglie, di bambini potrebbe avvenire la ricostruzione, cosa potrebbe fare quel padre per ricominciare, come quei bambini potrebbero riprendere regolarmente la scuola, senza più paura, cosa potrebbero fare per risistemare le loro cose, i libri, le cartelle, i giocattoli, come potrebbero essere aiutati, magari inviando loro lettere, abiti, oggetti utili e necessari. Quali organizzazioni si potrebbero contattare per riuscirci…

Un uomo e bambini scappano da una casa distrutta – Mosul, 30 giugno 2017
(AP Photo/Felipe Dana)

Immaginare, immedesimarsi, partecipare, proporre, dare e avere speranza … Forse farei intervistare qualche nonno o bisnonno degli alunni, per conoscere non solo la sua eventuale esperienza di vita durante una guerra, ma cosa vuol dire il rumore della guerra, l’odore della guerra, i colori della guerra, oltre le visioni …

Farei analizzare certamente il linguaggio della fotografia e il suo contenuto: come sono vestiti i bambini? da dove vengono e quanto sono differenti le magliette e i jeans che indossano da quelli dei ragazzi italiani? e gli zaini? e la pettinatura dell’ultima bambina in fila che si appoggia al bambino avanti a lei per non cadere, mentre scavalca le macerie, non è simile a quella di una bambina italiana?

Non sono lontani, la loro diversità è la stessa che distingue ognuno.

Farei forse concludere l’esperienza con un compito, un articolo per un giornale in cui proporre le loro riflessioni sul perché lì i bambini si trovano in quella situazione e qui in Italia no. Forse farei loro organizzare un piccolo spettacolo teatrale in cui rappresentare una storia di bambini in un “teatro” di guerra, magari appena conclusa o quasi.

Forse, se più grandi, gli farei vedere Germania anno zero (1947), forse… ragionando sulla fiction e sul perché dello sguardo di Rossellini.

Forse, per gli studenti di archivistica, proporrei anche una ricerca di tutte le fonti sul web e sui mobili realizzate da alcuni fotografi, e dalle loro agenzie, accompagnata dalla preparazione di un questionario, sia per i fotografi, sia per le loro agenzie, in merito alle modalità di conservazione dei loro documenti e archivi. Farei fare un esercizio di confronto sul modo diverso di proporre le loro realizzazioni (sui social, piuttosto che sui loro siti istituzionali, sui giornali on line, sui siti delle agenzie, …) e sui differenti ambienti di fruizione. Ragionerei con loro sul modo più opportuno di descrivere fonti e metafonti (contesti di fruizione e narrazioni altre) e di collegarle tra loro, di rappresentarle e proporle, oltre conservarle.

Lui è Felipe Dana ritratto da un’amica fotografa: Renata Brito. Sono entrambi brasiliani e lavorano per AP.

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