Public History… e punti di vista

A proposito delle immagini inserite in questo post, e del loro senso, rinvio alla nota in calce.

Cognate, famiglia De Gregori-Ventura, 1961

Cognate e figli, famiglia De Gregori-Ventura, Scandriglia (RI) 1969.

Tornando a ragionare di public history in Italia, dopo alcune prime riflessioni sugli aspetti “di missione” della costituenda neo associazione in Italia, e sui possibili soggetti che la frequentano o la frequenteranno (qui il link all’articolo precedente), vorrei confrontarmi su alcuni nodi delicati ,che hanno a che fare con un’altra delle caratteristiche, o meglio delle qualità, che dovrebbe distinguere il public historian: l’onestà intellettuale. Specificherò in che senso uso tali parole, che non vogliono certo preludere a moralismi fuori dalla realtà.

La prima riflessione che mi sorge spontanea, grazie alla lezione di Ansano Giannarelli (si veda la raccolta dei suoi scritti Il film negli archivi, 2011), è la medesima che spiego, quando insegno l’analisi e l’uso delle fonti filmiche e fotografiche, rivolgendomi a studenti sia delle scuole medie inferiori e superiori sia universitari: in esse ci sono sempre dei punti di vista, espressi sia nel commento sonoro (ove presente, e più facili da riconoscere) sia nel linguaggio delle immagini, dettati dagli intenti, gli scopi comunicativi, le urgenze espressive dei loro autori. E ci sono i punti di vista anche dei soggetti produttori/committenti (che non sempre coincidono con quelli degli autori). In realtà dietro una immagine fissa o in movimento c’è molto di più, dalla poetica dell’autore, alla sua etica, alle scelte stilistiche e spirituali, in grado, a volte, di produrre una “bellezza” che può innovare, cambiare, agire, come uno “strappo”, sul e nel mondo; così come potrebbero esprimere, pur nella perfezione dei linguaggi compositivi, chiusura e retorica, con il risultato di “congelare” il mondo, anche in senso politico, oltre spirituale (per questi temi rinvio alla lezione poetica di Tano D’Amico, molto ben illustrata qui da Christian Uva).

In tale contesto mi limito a un discorso, più scarno, sul punto di vista, sempre presente anche da parte di chi le immagini le usa, sceglie, ripropone, riusa. Personalmente avverto sempre i ragazzi che pure quanto vado loro dicendo è frutto del mio punto di vista, non scevro da dubbi, sottolineando il senso, anche più profondo, che ha per me il racconto che faccio loro (oltre naturalmente la spiegazione delle metodologie e degli obiettivi del corso e/o della singola lezione).

I linguaggi audiovisivi, fotografici, dei media possono insegnare davvero molto su cosa significhi il punto di vista e in quali forme, figure, elementi non verbali si esprima (rinvio ancora all’antologia degli scritti di Ansano Giannarelli, e alla sezione Didattica e Strumenti del presente blog).

Segnalo il primo minuto di video realizzato da Camera21, associazione che si occupa di fotografia, del suo linguaggio e di didattica. Il video riguarda un corso di educazione all’immagine tenuto ai bambini delle scuole elementari, alcuni dei quali hanno realizzato delle proprie narrazioni. All’inizio del film si chiede loro cosa sia la fotografia. Una bambina, Sofia, con immediatezza, dopo le esitazioni dei suoi compagni, risponde: “Per me la fotografia è far vedere alle persone le cose come le vedi tu…”. Prendendo spunto dalla domanda e da questa risposta, forse potrei dire che per me la public history è piuttosto condividere con le persone un percorso di scoperta, visione, rappresentazione, narrazione, in modo sempre nuovo e creativo, non soltanto di una, ma di storie diverse, secondo punti di vista differenti, magari in grado anche di agire e modificare percorsi storico-sociali predefiniti. Alla base di ciò, naturalmente c’è la ricerca, la scoperta o riscoperta delle fonti primarie, quindi la consapevolezza di un approccio ad esse connotato da rigore metodologico e nel contempo da spirito creativo, da affetto e rispetto nel loro uso, da una attitudine all’esplorazione, all’indagine, con il desiderio di interrogarle secondo prospettive inedite, per farne nuovi usi, per svelare altre storie (Cortini, 2013).

Savina con la figlia Teresa, Famiglia De Gregori-Ventura, Scandriglia (RI), 1939

Savina con la figlia Teresa, Famiglia De Gregori-Ventura, Scandriglia (RI), 1939

In tal senso nell’era del web 2.0 (ancora per poco?) è importante per un public historian avere chiara la distinzione tra fonti on line, descritte scientificamente in sistemi informativi, in banche dati, secondo normative che afferiscono al campo archivistico, biblioteconomico, museale, e siti tematici, che restituiscono spesso molte fonti primarie digitalizzate, la cui organizzazione sottintende invece precisi punti di vista, interpretazioni storiche, politiche, culturali legati all’occasione che ne ha determinato la costruzione. In questi casi non si tratta, come rileva Thomas Cauvin , nel suo manuale Public History. A Textbook of Practice (2016), di “archivi digitali”, piuttosto di collezioni di documenti editi secondo una certa interpretazione. Ciò vale soprattutto per l’uso di documenti contemporanei.

Mi hanno molto colpita, per l’onestà intellettuale che le contraddistingue, alcune motivazioni di Chiara Ottaviano alla base del progetto del film documentario Terramatta e del progetto dell’Archivio degli Iblei (vero e proprio modello di public history). Le motivazioni si possono leggere a conclusione del suo contributo nell’Annale 16 dell’Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico, dedicato a Le fonti audiovisive per la storia e la didattica.  Eccone uno stralcio in cui il punto di vista della studiosa è dichiarato: “Fu quando appresi nel dicembre del 2001 la notizia di una delibera dell’amministrazione di Ragusa, la mia città natale, per erigere una statua a Filippo Pennavaria, un concittadino che era stato un importante gerarca fascista e che aveva indubbiamente favorito la sua città [Ragusa] nel momento in cui, nel 1927, era stata eletta capoluogo di provincia. Mi sembrò allora che la mia comunità, o meglio una parte non minoritaria di essa, desse prova di un’imbarazzante indifferenza per i valori della nostra Costituzione repubblicana, in nome di un’autoreferenzialità tanto assoluta quanto nefasta. Provai sentimenti di vergogna, ma anche di colpa per aver abbandonato quei luoghi in nome di pur legittime aspirazioni culturali e professionali. Ci si indigna per qualche cosa di sbagliato, ma ci si vergogna per qualcosa che ci tocca direttamente. La vergogna, l’indignazione e il senso di colpa sono sentimenti che possono motivare all’azione anche in modo innovativo. Il film Terramatta e il progetto dell’Archivio degli Iblei sono stati il mio modo di ritornare, di restituire attenzione, intelligenza e affetto a quei luoghi e a quella comunità”.

Campagna di Randazzo, Collezione Di Benedetto, Biblioteca Comunale di Palermo, Archivio degli Iblei

Campagna di Randazzo, Collezione Di Benedetto, Biblioteca Comunale di Palermo, Archivio degli Iblei

Altra questione, collegata: il public historian si troverà per esempio ad avere a che fare con istituti culturali, con enti, archivi, musei … Lascio per ora da parte il mondo della scuola, con il suggerimento rivolto ai docenti di non smettere mai di interrogarsi, loro per primi, anche sul proprio punto di vista, quando tengono una lezione ai ragazzi, e ad esplicitarlo sempre. Nel caso non ne fossero del tutto consapevoli, l’invito è a interrogarsi su di esso, prima di iniziare una lezione.

In Italia sono enormi e diffusi in modo capillare i patrimoni culturali di immagini, fisse e in movimento, iconografiche, nonché quelli di carte e libri, “mondi” che la sottoscritta frequenta dai tempi del liceo, dell’università, della specializzazione, dell’insegnamento, degli impegni lavorativi (per passione frequento anche i patrimoni artistici). Questi patrimoni sono custoditi e gestiti presso istituti e fondazioni culturali, pubblici e privati, nonché statali (ci sono poi i patrimoni dei privati/persone… universi ancora in buona parte da indagare, scoprire, far emergere, diffondere, “riusare”). Pratiche di public history comporteranno sempre più l’entrata in contatto con chi gestisce, all’interno di una istituzione, ovvero coordina, organizza, tratta, propone e consente l’accesso al “proprio” patrimonio culturale, a volte in modo totale e senza limiti (pochi a dire il vero), o, più spesso, a determinate condizioni, legate anche a problemi di diritti. In quest’ultimo caso, il public historian dovrà interrogarsi su come gestire il limite o le condizioni imposte dall’istituto, dalla sua politica culturale ed economica, dai suoi punti di vista. Viceversa, un istituto dovrà interrogarsi su quanto e come sia disponibile a partecipare in modo aperto anche a possibili pratiche di riuso non propriamente rispondenti alla linea di gestione “culturale” e aziendale, fino a quel momento da esso adottata.

War is over! L’Italia della Liberazione nelle immagini dei U.S. Signal Corps e dell’Istituto Luce, 1943-1946, mostra fotografica, Roma, 2015

War is over! L’Italia della Liberazione nelle immagini dei U.S. Signal Corps e dell’Istituto Luce, 1943-1946, mostra fotografica, Roma, 2015

Il public historian avrà bisogno degli strumenti e dei giacimenti digitali, in costante incremento, messi a punto da un istituto con l’ausilio spesso di soggetti esterni, soprattutto partner tecnologici (sulle problematiche relative alla Storia nell’era digitale e alle fonti digitali in rete rinvio al ricco e prezioso Dossier su Novecento.org, segnalando, in particolare, i contributi di Serge Noiret). I responsabili delle scelte di politica culturale e aziendale di un ente avranno bisogno dei public historian e delle loro competenze per la valorizzazione, la visibilità dei patrimoni, delle attività dell’istituto, attività possibili consentendo loro il riuso creativo dei beni culturali che gestiscono. Prima domanda: a quali condizioni e fino a che punto questo riuso creativo è/sarà consentito, quantomeno sui beni non soggetti a diritto d’autore, in modo più libero e da parte di una pluralità di soggetti? Nel caso di un public historian, infatti, il pubblico a cui un lavoro è indirizzato non è solo un recettore passivo, ma dovrebbe diventare protagonista, co-autore di un progetto.

Finora, per i progetti di valorizzazione dei “propri” patrimoni, gli istituti culturali hanno fatto riferimento a studiosi di professione, storici e consulenti accademici, con rapporti non sempre sereni, considerando che difficilmente gli storici e gli studiosi in genere, o gli autori dei documenti, partecipano all’organizzazione, riordino, trattamento delle collezioni di fonti presso un istituto. Constato inoltre, con Thomas Cauvin, che i gestori di archivi e beni culturali non sempre hanno una formazione storica specifica e approfondita, relativa ai contesti e alle tipologie dei beni che custodiscono. Come Cauvin sottolinea spesso i responsabili di tali collezioni, all’interno di un istituto, sono incaricati a svolgere soprattutto funzioni di management, di progettazione, di ricerca di risorse e di valorizzazione anzitutto economica dei patrimoni. D’altra parte, come rileva sempre Cauvin (2016), i gestori delle collezioni sono potenti attori nel determinare cosa le società ricordano/ricorderanno o non rammentano/rammenteranno dei loro passati.  Lo studioso insiste quindi sul ruolo fondamentale di mediazione dei public historian che sono (in Italia si auspica che lo saranno presto) ben attrezzati per identificare il valore storico delle collezioni e i criteri di gestione più idonei, sperando, in tal senso, che non entrino in conflitto con archivisti e specialisti del trattamento dei beni culturali, tanto meno con gli storici accademici.

Le pratiche di valorizzazione delle fonti di un istituto si concretizzano in convegni, mostre, rassegne, produzioni di opere multimediali e audiovisive, libri e cataloghi, realizzati con la cura scientifica appunto di consulenti esterni. L’auspicio, in questo quadro, diventa innanzitutto quello per cui gli istituti culturali, le fondazioni, le aziende che custodiscono importanti patrimoni culturali si aprano sempre più anche e soprattutto ai public historian e ai loro “pubblici”, ovvero anche a punti di vista diversi rispetto a quelli “aziendali”. Thomas Cauvin (2016) ritiene di grande importanza il ruolo del public historian per ri-connettere la gestione delle collezioni documentarie con la professione storica. In particolare per gli archivi di immagini dell’età contemporanea, aggiunge la sottoscritta.

Penso inoltre che, oltre a interrogarsi sulla figura del public historian, bisognerebbe porsi domande anche sulle “esigenze” dei patrimoni culturali, in quanto public heritage, in rapporto alla società, ai periodi storici, alle comunità territoriali, ma anche globali, in cui si sono costituiti, si trovano e a cui appartengono.

The refugee family of Milorad Popovich (as a child) escaping Yugoslavia and Communism, on their way to America in 1950. Photo courtesy of Milorad Popovich, http://www.generalmihailovich.com/

The refugee family of Milorad Popovich (as a child) escaping Yugoslavia
and Communism, on their way to America in 1950.
Photo courtesy of Milorad Popovich, http://www.generalmihailovich.com/

Un discorso particolarmente delicato è quello relativo alla gestione/valorizzazione di patrimoni “dissonanti” – dissonant heritage – all’interno di comunità e di memorie spesso divise e controverse (segnalo, a tal proposito, il progetto della Fondazione Micheletti, del 2012-2014). Si tratta di un argomento “difficile”, molto controverso, che richiede un approfondimento storico, teorico e politico-culturale ampio, sotteso nelle citate riflessioni di Chiara Ottaviano. Si torna, ancora una volta, alla delicata questione dell’uso pubblico e politico della storia… quindi sul ruolo del public historian, e sul suo punto di vista anche nel trattare e riusare questo tipo di patrimoni.

L’auspicio è dunque che il public historian sappia garantire, come mediatore culturale, una gestione delle fonti, soprattutto contemporanee, ai fini di un determinato progetto, non scevra da una impossibile neutralità, ma i cui criteri di analisi ed uso, nonché gli scopi e gli obiettivi, dovranno essere sempre chiaramente espressi, compresi quelli di rilevanza economico/commerciale (in particolare quando si riusano le fonti audiovisive), con consapevolezza, rigore e rispetto sia per i documenti, sia per i loro diversi fruitori sia per i potenziali differenti pubblici.

***

Le immagini della Famiglia De Gregori-Ventura, inserite in questo articolo, provengono dall’archivio famigliare di mio marito, Piero Ventura, che ringrazio. Sono state utilizzate, insieme a molte altre, anche nell’ambito del progetto Didattica Luce in Sabina, realizzato dalla sottoscritta insieme a Patrizia Cacciani (Responsabile Ufficio studi e catalogazione Archivio storico Luce) e a Roberto Lorenzetti (Direttore dell’Archivio storico di Rieti).

Un pensiero estremamente affettuoso e grato va alle persone che hanno aderito a quel progetto “territoriale”, iniziato nel 2015, molto bello e partecipato, con curiosità e generosità tipiche delle genti di quei luoghi, che ha riguardato Rieti e provincia, compresa Amatrice e dintorni.

Segnalo qui i brevi post della sottoscritta dedicati alla Famiglia De Gregori-Ventura.

Credo che gli archivi famigliari, attuali e del passato anche remoto, siano e saranno sempre più importanti per le pratiche di public history. Constato infatti il crescente e appassionato interesse per lo studio e la valorizzazione delle immagini di famiglia e delle loro narrazioni, non solo da parte di studiosi, ma soprattutto da parte di ragazzi, studenti di ogni grado, e delle loro famiglie. Un’occasione da non perdere, anche per riflettere sui punti di vista e sul senso della storia delle comunità locali, e dal basso…

 

Pubblicità

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...